CINZIA BOLLINO BOSSI

04.05.2012 19:00

 

CINZIA BOLLINO BOSSI

 

Tempo, silenzio, metafisica sospensione di forme, di oggetti, di spazi: questo è ciò che Claudio Rossi immortala e ci restituisce con la sua fotografia,

Una fotografia che si presenta come sequenze di angolature ampie, prospettive accidentali aperte e comunicative, e di primi piani laconici, quasi imprevisti ed inattesi nella loro incisività; una fotografia in cui una luce dagli accenti quasi caravaggeschi si posa sulle cose rivelandole, e dialoga con la sua assenza, con l'ombra, generando contrasti e dando vita alla realtà.

Nelle foto di Claudio Rossi vediamo luoghi deserti e oggetti abbandonati, o particolari di portali, di muri, di finestre, ma è come se l'artista fotografasse l'assenza e forse anche l'essenza delle cose, perché vero soggetto di queste inquadrature e di questi scatti è il tempo, il tempo della materia che pare avere un ritmo diverso rispetto a quello dell'uomo, un tempo che non può essere corretto, alterato, modificato, e che si lascia dietro polveri e detriti, muffe e ragnatele; un tempo che annebbia e consuma i contorni, che crea aperture e screpolature nei legni e nella terra, che tinge di aloni umidi le pareti e che ammucchia negli angoli foglie e festuche.

Una patina pristina e polverosa pare essersi posata non solo su ciò che è stato fotografato, ma sulle foto stesse, al punto che immaginiamo che con l'approccio alla ricerca fotografica Claudio Rossi intenda interrogarsi sul valore di un eventuale confronto con la pittura, in virtù della resa fedele ed attendibile di certi anfratti di realtà - muri, intonaci, pozze - che hanno colori, campiture e grammatiche proprie della pittura astratta ed informale.

Svelare e rivelare, fissare dettagli su cui già si è fissato il tempo, nella solitudine di esplorazioni, di piccoli viaggi: l'occhio del fotografo carpisce porzioni di quel niente che sono le zolle polverose, i pertugi nella terra, i capannoni abbandonati e gonfi di luce irreale, sporcati dalle infiltrazioni delle piogge e dal fiato dei giorni trascorsi. Li isola ulteriormente con il proprio obiettivo e poi, una volta stampati, consente che ne vengano ripercorsi gli sbalzi, le superfìci materiche, permette che ne vengano immaginate le ore e le stagioni passate.

Che siano ampi spazi o frammenti di muri e di grotte, o anfore lasciate cadere e ancora da raccogliere, si ha sempre la sensazione di osservare uno spazio chiuso, che opprime perché obbliga a guardarsi dentro, a percorrere lo spazio altrettanto angusto ed infinito della memoria: lo sguardo, perdendosi nei dettagli, viene magicamente ricondotto a sé stesso, in un altrove tutto mentale, di pensieri e di ricordi, dove il passato riemerge come un fiume in piena. L'esplorazione della realtà diventa esplorazione di sé, la visione dell'esterno genera una visione - o un tentativo di visione - dell'interno e del pensiero, gli sguardi si sommano e si confondono in una girandola in cui il tempo personale e soggetti¬vo della memoria e del vissuto si mescola al tempo degli oggetti.

Ecco quindi che la fotografia di Claudio Rossi diventa strumento d'indagine, dapprima teso a palesare la realtà circostante, infine ricondotto a privato ausilio mnemonico.

Ciò riesce anche perché l'autore gioca da un lato sulla immediata riconoscibilità di certe zone, di certi dettagli, e contemporaneamente sull'impossibilità di una precisa identifica¬zione e collocazione. Ovunque e in nessun luogo, agiti, agibili e tuttavia deserti, quei luoghi, quegli oggetti, sottratti all'oblio e consegnati ad altri occhi, rimangono patrimonio irreale, quasi una sorta di quinta, di scenario cinematografico abbandonato dalla troupe.

Il silente trascorrere del tempo, fissato in questi scatti, genera nello spettatore una sorta di straniamento metafisico, in quanto l'intrusione dell'inedito nella quotidianità, la resa di una dimensione tangibile, ma celata e nascosta, ci viene proposta dalla fotografia, linguaggio della visione che parte necessariamente ed esclusivamente dalla realtà sia essa macroscopica o microscopica, accolta nel suo pieno manifestarsi o alterata e modificata durante il processo di realizzazione e di stampa.

Ma non è lo stupito senso di un'alchimia tecnica ciò che cerchiamo in queste foto, quanto la perplessa identificazione dei luoghi e degli oggetti, e le risposte alle ininterrotte doman¬de sullo stato delle cose: quando il tempo sarà completamente trascorso, che cosa ne sarà di tutto? Abituati come siamo a visioni patinate e a consumi veloci, ci stupiamo, di fronte a queste foto, ci chiediamo dove siano tali luoghi, ci interroghiamo suI loro passato, sul loro perché; ci chiediamo ove conducano quelle scale interrotte dall'inquadratura, a chi o a cosa servissero quei buchi, quei teli di plastica e di stoffa impietrita dalla polvere che mimano venusini panneggi, ci chiediamo chi, prima e dopo l'occhio del fotografo, ha visto, vissuto e visitato quelle porzioni di realtà. Ci chiediamo che ne fu, delle assi piantate nei muri e dei ganci di ferro coperti di ruggine. Perché la fotografia parte sempre dal reale, e questa certezza, superata la contemplazione estetica, ci blocca, ci arresta, obbligandoci a chiederci che cosa c'era prima, come era prima, obbligandoci quindi a fare un percorso a ritroso all'interno del tempo, quello che ha scandito gli attimi delle cose, e quello che ha distillato le nostre esistenze.

La manipolazione del dato reale che altri ottengono attraverso apparecchiature tecnolo¬giche, qui si ha solo ed esclusivamente mediante l'evidenza, sottolineata da viraggi quasi monocromatici e da un uso sapiente della luce e del colore. E in questa riflessione non c'è spazio per il presente che scivola inesorabilmente verso il futuro, perché nei lavori di Claudio Rossi tutto viene inghiottito in un immenso ieri in cui il verde acqua delle muffe si allarga, contaminando l'inquadratura intera, i marroni bruciati delle ruggini ed i grigi argentei ed azzurrini delle ragnatele si estendono a tutto il resto, permeando di sé la-realtà tutta, e la stessa consunzione, lo stesso mutarsi e tramutarsi delle cose si allunga negli occhi dello spettatore, obbligandolo all'identificazione con i luoghi e con gli oggetti, con i soggetti di quel campionario di relitti e di materie consunte, con quelle geografie di luoghi dimentichi che evocano il mistero del passato.

Quasi superfluo è chiederci che ne è dell'uomo, l'assente, colui che lascia traccia di sé ma che mai compare nelle foto, colui che abbandona bottiglie, o schienali di sedie in capanni isolati, colui che scava buche nel terreno e che pianta puntelli e chiodi nelle mura: non c'è spazio per Fattore-uomo in questa sorta di rupestre e fradicia metafisica, traduzione della realtà abbandonata, del perpetuo ed eterno imbrunire vespertino in cui si fa ritorno dai campi, e lì dove c'era il lavoro e la fatica rimane solo il silenzio, a tratti interrotto dalla voce del vento che posa polvere e memoria, o dal percussivo incedere della pioggia, che macera i legni e screpola i muri; non c'è spazio per l'uomo, i luoghi e gli oggetti si sono congedati da lui, negandosi come strumento e suggerendosi come simulacro di narrazio¬ni e di tracce, proponendosi, ora che un soffio che somiglia al sonno eterno li ha resi inservibili, come infinita fonte per chiunque sappia immaginare storie di corpi di azioni di giornate e di scopi, e di tutto ciò che è stato vissuto dalle cose.

Cinzia Bollino Bossi, maggio 1999

 

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